A Roberto
Vite di madri e padri, giovani e meno giovani relegate ai confini dell’umanità ma nessuno lo vuole sapere. Esistenze considerate non come persone umane, ma soltanto come “i corpi dei detenuti”.
“Dove dimora il dolore il suolo è sacro”. E sacra è la porta di sbarre della cella che custodisce il dolore e la speranza di chi è stato privato delle libertà. I morti per pena sono invisibili e la politica continua a sconfiggere la vita dentro al carcere solleticando la morte. La presenza della giustizia nelle galere non soccorre quella vita che manca. Non sempre si sopravvive e, a volte, ci si rassegna a combattere una battaglia che non può essere vinta come l’ergastolo ostativo.
Quando dico detenuti sento ancora il rumore metallico di quel cancello che si chiude alla vita e si spalanca spingendoti sull’orlo dell’abisso. Il carcere non è storia di corpi ma storia di anime che vivono la paura e lunghi sensi di colpa in pochi istanti ripetuti. Pochi si rieducano, molti pagano solo un pedaggio alla propria coscienza, troppi scelgono di togliersi la vita.
Si medica la sofferenza dell’anima pensando ad una carezza anche solo virtuale donata dalla persona che ami, solo così il dolore si affronta e l’angoscia può diventare speranza. Siamo tutti fragili nel corpo, nei pensieri dietro le sbarre, siamo come i bambini, impariamo a volerci bene e ad essere solidali. La notte spesso inquina i pensieri e lascia spazio ad elucubrazioni appiccicose, si pensa spesso a ciò che vorresti fare e a come farlo.
Ripensando a quella storia, la mia, e alla prima volta in un carcere a incrociare sguardi che chiedono ascolto mi commuovo ancora…
È forse un’idea troppo rivoluzionaria credere che l’Italia possa rivolgere alle galere uno sguardo diverso? È forse troppo audace pensare che sono morte persone – come noi – perché le abbiamo lasciate sole?
Ed io potendo ancora parlare, vorrei dire con tutta la forza che posso: per Roberto e per tutti gli altri morti nelle carceri italiane, non facciamolo mai più.
Caro Roberto la misericordia ci assista e Dio ci perdoni per aver saccheggiato dalla tua anima la speranza.
Totò Cuffaro